SCIENZA MEDICA E DIRITTO: UNA LUNGA STORIA

24.06.2013 17:39

Antico Egitto  3000 a.C. circa: Imhotep, giudice e medico di corte del re Zoser, il primo “medico legale” che la storia ricordi, esegue per conto del sovrano indagini mediche sulle cause di morte.

Stele del Codice di Hammurabi, una fra le più antiche raccolte di leggi conosciute nella storia

 

1700 a.C.  Nel Codice di Hammurabi il legislatore elenca le norme che il medico doveva rispettare nelle indagini riguardo all’aborto, alla violenza carnale, alle lesioni personali, al risarcimento del danno, all’accertamento di paternità o alla responsabilità professionale.

Vecchio Testamento: nel Levitico Mosè indica ad Aronne quali sono i criteri sanitari di idoneità al sacerdozio che dovranno essere valutati dal “sacerdote medico”: né uno zoppo, né un mutilato, un gobbo, un nano, né uno affetto da albugine, scabbia, erpete, ernia, potranno…”

Come vediamo l’intreccio tra la scienza medica e il diritto viene da molto lontano:  ovviamente anche la medicina legale, la criminologia e la psichiatria forense hanno seguito e applicato le conoscenze progressivamente nuove riguardo alla medicina, alla “follia”, alla malattia di mente e ai loro rapporti con la genesi e le conseguenze dell’atto criminale.

Nel diritto romano furono ampiamente affrontati problemi medico-legali: la ”Lex Giulia” stabiliva criteri “diagnostici” per lo stupro, la “Lex Aquilia” criteri per valutare la letalità delle ferite, il testamento, l’aborto, la follia; la “Lex Cornelia” criteri “medico- legali” sull’infanticidio.

Roma, Idi di marzo 44 a.C.: i congiurati uccidono con numerosissimi colpi di pugnale Caio Giulio Cesare.  Svetonio (De vita Caesarum) racconta: “Giacque a terra esanime per qualche tempo, mentre tutti fuggivano, fino a quando tre schiavi, depostolo su una lettiga con un braccio penzoloni, lo riportarono a casa. Fra tante ferite, come riferisce il medico Antistio, non se ne trovò nemmeno una che fosse mortale, eccetto la seconda, ricevuta in pieno petto.”

Antistio, medico esperto, stabilì quindi con il solo esame esterno che delle ventitré ferite una sola era penetrante in torace, tra la prima e la seconda costa, e pertanto fu ritenuta l’unica mortale. L’autopsia era in quei tempi un atto ovviamente inimmaginabile.

Il diritto romano considerava la follia come oggetto di  specifiche  considerazioni  e  di particolari disposizioni.

Il “furiosus” veniva equiparato all’ infans e un atto compiuto in stato di furor, vale a dire in una condizione che sinteticamente comprendeva ogni tipo di disturbo mentale, non era punito.

In ambito civilistico il furiosus era ritenuto incapace di compiere un atto giuridicamente valido e a sua tutela era nominato un curatore.

Con la caduta dell’Impero romano e con il progressivo peso sociale e culturale del Cristianesimo, la sofferenza psichica venne interpretata tendenzialmente in senso religioso: la demonologia divenne il principale sapere riguardo le patologie psichiatriche e una parte dei fenomeni psichici venne interpretata  come diretta espressione del potere demoniaco. Le “manifestazioni demoniache” vengono comunque tenute distinte dalla follia, che rende incapaci in senso giuridico: nel Concilio di Worms (898) si prevedeva che i malati di mente fossero esclusi dall’imputabilità e che al “furiosus reus” potesse essere comminata una qualche forma di penitenza solo dopo la guarigione.

Dopo l’anno 1000, con l’affermarsi di una tradizione giuridica italiana, la presenza del “medico giurato” all’interno del giudizio acquista una nuova dignità culturale.

Nel medioevo il codice Giustinianeo stabiliva accertamenti tecnici nella determinazione della gravidanza in atto, in casi di sterilità o impotenza, di avvelenamento, di malattie mentali; nel caso di scioglimento del matrimonio, per esempio, il “Pretor”, su richiesta del marito, faceva visitare la moglie da tre levatrici “probatae artis et fidei” per accertare l’eventuale gravidanza.

Prevedeva inoltre chiaramente la collaborazione di medici esperti (“medici non sunt proprie testes, sed maius est iudicium quam testimonium”).

In Italia  uno sviluppo organico del pensiero medico applicato a norme del diritto ha inizio nel XIII° secolo quando Innocenzo III° codificò la figura del perito medico “affinché la soluzione di problemi biologici comunque connessi con il diritto fosse lasciata a chi di arte medica fosse esperto.”

Nel 1249 Ugo da Lucca fu obbligato a dare pareri medici sotto giuramento; nel 1302 Bartolomeo da Varignano eseguì la prima autopsia giudiziaria in un caso di sospetto veneficio per incarico del giudice Giacomo in Bologna.  La risposta fornita dai periti era chiamata “consiglio” e doveva essere “succinta e apodittica.”

Le perizie ostetriche, non potendo i medici effettuare ispezioni corporali sulle gestanti, venivano affidate ad “expertae matronae”, cosa che ritroveremo anche alcuni secoli dopo nella storia milanese del 1600.

La famosa legge Carolina (Carlo V°, 1530), detta Constitutio Criminalis Carolingia, definì un primo e organico inquadramento dei compiti dei periti medici, “siano essi chirurghi o levatrici”, nell’accertamento tecnico in casi di parto provocato, aborto, infanticidio, veneficio, suicidio di infermi di mente, errore professionale, mancata o incompleta coscienza di mente dell’imputato.

L’opera più famosa, che rappresenta la nascita della medicina legale italiana, è rappresentata dalle “Quaestiones medico legales” di Paolo Zacchia (1584-1659). I suoi scritti rappresentarono per due secoli il classico testo di riferimento di qualunque problema medico giuridico: le “questiones” trattate sono 195 e  toccano i più importanti argomenti medici del tempo; rispecchiano l’evoluzione del pensiero scientifico rinascimentale ed esprimono per la prima volta una chiara mentalità medico-legale. L’archiatra pontificio, precorrendo i temi che solo nel IXX e XX secolo avrebbero trovato più ampio uditorio, disquisiva sulle ferite d’arma da fuoco, sugli sfregi, poneva diagnosi differenziali tra le varie cause di morte per asfissia, tra suicidio e assassinio, tra aborto infanticidio e, questione ricorrente all’epoca, se un bambino fosse nato vivo o morto.

Accanto all’accoglimento e alla divulgazione di idee nuove e rivoluzionarie per l’epoca, lo Zacchia si preoccupò anche di confutare e smascherare alcune delle più comuni credenze di allora, quali il sanguinamento delle ferite della vittima all’avvicinarsi dell’aggressore e la morte per annegamento prodotta dall’acqua ingerita.

Londra 1886, Vhitechapel: l’ispettore Aberlein consulta Sir Williams, chirurgo della real casa (che secondo un’accreditata ipotesi  sarebbe proprio il “ripper”,) a proposito del tipo di arma da taglio che potrebbe essere stata usata da Jack “lo squartatore”, partendo dalla caratteristica delle ferite.

Con l’illuminismo la disputa sulla punibilità e l’imputabilità dei malati di mente acquista nuovo vigore grazie all’opera di alcuni giuristi (Menocchio, Baldo, Caepolla), chiaramente debitori dell’illuminata lezione del diritto romano. Le categorie interpretative divengono via via sempre più raffinate: il Menocchio, ad esempio, sosteneva che il “furiosus” che commettesse un delitto in “actu furoris” non dovesse essere punito al pari di chi, prima “furiosus”, fosse tornato in possesso delle proprie facoltà dopo la commissione del delitto. Sosteneva inoltre che il reo divenuto “furiosus” dopo aver commesso il fatto non fosse passibile di pene corporali, così come Baldo e Caepolla sostenevano la non punibilità di chi, “folle”, avesse commesso il fatto “ante furorem”. Nel lessico dell’epoca esprimevano già i concetti attuali di infermità sopravvenuta e di capacità di stare in giudizio.

Sempre lo Zacchia (nelle già citate “Quaestiones medico legales”) «tenta di conciliare il sapere del diritto, allora soprattutto canonico, con il sapere medico dell’epoca» (Marchetti), distinguendo forme morbose di origine organica, psichica o reattiva,  ponendo nella valutazione della durata dei sintomi il criterio per stabilire la durata del “furor” e distinguendo una demenza primaria da una secondaria. Egli introduce nuovi criteri, dando importanza all’anamnesi pre-psicopatologica e pre-morbosa, al confronto con la normalità, e indicando al medico la necessità di conoscere anche i “signa sanae mentis”.

Fino al 1600  la medicina ufficiale  aveva finito con il legittimare, per una serie di motivi sociali, culturali e religiosi, la lettura della follia in termini di possessione demoniaca e di stregoneria.

Nel XVII° secolo la follia, e con essa la devianza e perfino la povertà,  viene affrontata con la costruzione di grandi “asili”  in tutta Europa:  è quella che Focault  definì “la pratica del grande internamento”. La risposta sociale alla follia era costituita dall’internamento in un istituto apposito (asylum), affidato alla classe medica. Famosi erano “l’Hôpital general” e l’”Hôtel Dieu” di Parigi, il “Bethleem” di Londra, l’ospizio di York, le Zuchthäuser in Germania. Per non parlare della Salpêtriere e Bicêtre, sempre a Parigi.

È in questo contesto che avvenne la “rivoluzione psichiatrica” operata da Pinel, considerato con Esquirole e Georget colui che cominciò a liberare i malati di mente dalle catene:  egli  propose nel 1800 una prima classificazione sistematica delle malattie mentali.

Con l’inizio di una psichiatria “scientifica” il rapporto tra quest’ultima e il diritto muta in modo sostanziale. Come osserva ancora Marchetti  «l’osservazione sistematica di una più vasta casistica, condotta con i metodi scientifici del tempo, e l’incontro con la devianza e il crimine senza che vi fosse alla base la sola necessità di favorire un processo di emarginazione, fanno sì che la nosografia si arricchisca di nuove figure, tese a proporre una spiegazione “scientifica” dell’agire criminale ed a fornire ai giudici sicuri strumenti di giudizio».

In Italia nello stesso periodo storico nacquero le “scienze criminali”, i cui fondatori sono universalmente riconosciuti  come Lombroso, freniatra e medico legale, Ferri, giurista, e Garofano, magistrato.

 

 

Facciamo ora un salto nel tempo ed entriamo nelle aule di un tribunale ai nostri giorni: è consuetudine imbattersi in personaggi, che non sono né magistrati né avvocati, né fortunatamente imputati, ma medici, psichiatri e criminologi che collaborano professionalmente alle varie fasi del processo. Nella fase delle indagini il P.M. può ricorrere all’ausilio di un consulente medico; il GIP su richiesta delle parti o d’ufficio può disporre perizia psichiatrica; nel dibattimento e nella fase esecutiva, infine, spesso si ricorre allo psichiatra forense.

Oppure osserviamo le “crime scenes”: ormai i media ci presentano quotidianamente scene di delitti, reali o immaginari,  dove psichiatri e criminologi, accanto ad agenti della “polizia scientifica”, lavorano raccogliendo reperti e tracce,  esaminando reperti biologici e cadaveri.

Come abbiamo visto, l’esigenza  della medicina legale nasce con il diritto e si sviluppa nei secoli accanto ad esso, introducendo gradualmente nel processo la “prova scientifica”: scienza e diritto sembrano rappresentare un binomio inscindibile per raggiungere conoscenza e verità attraverso “conoscenze di tipo specialistico non comprese nel bagaglio culturale dell’uomo medio”.

La perizia è il mezzo di prova con il quale, tramite le specifiche conoscenze scientifiche, artistiche o tecniche del perito, si accerta l'esistenza di un fatto, le sue cause, la sua natura, il suo valore e i suoi effetti, impossibili da verificare e valutare con le comuni conoscenze e percezioni; essa rappresenta quindi il momento principale in cui la scienza viene in contatto con il diritto.

Nel contempo il magistrato deve fidarsi dell’esperto che ha scelto, spesso “deve” accettare conclusioni su materie specifiche che non può conoscere (vedi ad esempio nell’attualità le conclusioni peritali in materia di DNA): questo potrebbe essere sentito come una limitazione al “diritto del giudice a decidere da solo”.

Non pensiamo quindi che si sia sempre trattato di un connubio  senza discussioni o “incidenti”: i rapporti tra scienze umane e diritto non sono sempre stati idilliaci.  I giuristi, forse perché non ricevono una formazione in “filosofia della scienza”, si aspettano certezze che essa può non sempre (o quasi mai) dare; a volte sembrano non accettare di buon grado che venga chiamato uno specialista  per diagnosticare le personalità dei rei e per tentare di spiegare il comportamento umano, “compito che penserebbero  demandato alla loro esclusiva sensibilità ed esperienza” (Gullotta.) Del resto è palpabile da sempre, nell’ambito del processo (facciamo sempre riferimento al processo come cuore del diritto), una certa diffidenza nei confronti dello psichiatra, che a volte tende a cadere nella trappola della “certezza” della scienza che gli viene richiesta.

Quello che si può definire un “incidente” tra diritto e scienza era già avvenuto, ad esempio, nel 1500, in pieno fermento rinascimentale: Johann Weyer, medico calvinista famoso anche per i suoi studi demonologici, definito “il primo psichiatra medico legale di tipo scientifico umanitario”, promosse un iniziale tentativo di rivendicare alla medicina il compito di studiare e curare la follia, così come quello di discernere lo stato di imputabilità di un soggetto. La risposta del “Diritto”, tramite J. Bodin, filosofo e giurista francese famoso per i “Sei libri della Repubblica”, non si fece però attendere: “ se fossero i medici ad applicare i loro concetti relativi all’imputabilità ne deriverebbe un grave turbamento dell’ordine sociale in via di costruzione...” Il giurista rivendica quindi il pieno diritto ad essere lui solo a giudicare dell’imputabilità e a valutare lo stato di mente dell’imputato.

Davanti a un soggetto imputato di omicidio, il giudice ha, tra le altre cose, il compito di accertare se il soggetto abbia  commesso il fatto, in quali circostanze di tempo e luogo, i suoi rapporti con la vittima in particolare al momento del fatto, perché abbia commesso quel fatto, la consapevolezza e l’intenzionalità dell’omicida, se fosse capace di intendere e di volere al momento del fatto. È facile comprendere come gli ultimi tre punti siano di competenza anche dello psichiatra forense.

Il consulente tecnico e il perito d’ufficio nel processo moderno svolgono una funzione valutativa che si concreta in conclusioni e in un giudizio,  ausiliari alla formazione del convincimento del magistrato (che emette il giudizio finale e dunque la sentenza).

Il giudice applica l’assioma  “iudex peritus peritorum”:  egli ha facoltà di valutare autonomamente e liberamente i risultati di qualunque accertamento peritale che egli abbia disposto o acquisito,  e qualora non condivida le conclusioni del perito egli motiva per iscritto le ragioni del suo dissenso.

Gli accertamenti disposti in sede di incidente probatorio assumono valore di  prova: il nuovo codice di Procedura Penale, introducendo il concetto di oralità, porta il perito a discutere in contraddittorio, vuoi davanti al GIP, al GUP o in dibattimento, le consulenze e gli accertamenti tecnici svolti.

Una specie di “cross examination” con i consulenti, i quali divengonofigure simili all’”expert witness” del sistema anglosassone: questi non è un consulente nominato dall’ufficio,  non è neanche un testimone, in quanto” giver of opinions, not of facts”, ed è presentato dalle parti.

Sempre restando negli States, il dibattito sulla “prova scientifica” fece un passo importante nel 1923, nel caso Frye vs United States. La corte formulò il criterio per cui un test scientifico può essere ammesso solo quando il principio o l’esperimento in questione siano “sufficiently estabilished to have gained general  acceptance in the particular field in which it belongs.” Veniva così stabilito il “general acceptance test”, detto anche “Frye test”. Principio che fu ancor meglio precisato nel 1993 dalla Corte suprema (Daubert vs Merrel Dow Pharmaceuticals) che enumerò criteri più precisi riguardo la controllabilità o falsificabilità delle teorie che stanno alla base della prova, le percentuali di errore noto o potenziale, il controllo di altri esperti attraverso pubblicazioni scientifiche validate, il consenso generale della comunità scientifica interessata. Verifiche e controlli sulle teorie e sui consulenti forensi che in Italia ancora non esistono.

 

Riassumendo, possiamo dire che l’avvento del metodo scientifico e il suo incontro con il diritto hanno comportato effetti decisivi su quest’ultimo. In epoca scientifica la spiegazione e l’interpretazione di un evento si fondano sia sulle osservazioni condotte sull’evento stesso, che permettono di precisarne meglio la natura e le condizioni di accadimento, sia sulle conoscenze possedute dalla comunità scientifica riguardo ad eventi analoghi. Il metodo scientifico ovviamente non è del tutto esente da errori, ma è un sistema in grado di riscontrarli e di correggerli. Se è vero che la scienza fonda le sue leggi su osservazioni ed esperimenti, è anche vero che tale procedimento non sempre è sufficiente a garantire la validità delle conclusioni raggiunte. Per esempio: partendo dal concetto che un esperimento successivo potrebbe disconfermare una parte delle conclusioni e delle leggi sviluppate, Popper conclude che mentre non è possibile provare la verità di una teoria, è invece possibile falsificarla, qualora si trovino dati contrastanti con le sue asserzioni.

In era prescientifica l’interpretazione degli eventi del mondo e del comportamento umano avvenivano  in funzione di credenze delle quali nessuno si preoccupava di verificare l’attendibilità e la corrispondenza con la realtà. Il significato di eventi e comportamenti era ciò che in essi si voleva vedere, come insegnano, ad esempio, i processi agli untori ed alle streghe.