QUELLA FUGA PER NEGARE L'ACCADUTO

24.06.2013 16:53

Quando ho cominciato a riflettere sull’articolo che avrei scritto, non si aveva ancora notizia ufficiale di sospettati od indagati; il profilo criminologico che si poteva ipotizzare dalla dinamica del fatto era quello di un giovane, forse un giovanissimo, che in un momento di grave incoscienza aveva travolto il bambino e poi era fuggito, forse in preda al terrore, forse già pensando a come sfuggire alla giustizia.

I casi di pirateria della strada sono sempre più frequenti, (un aumento del 130% negli ultimi 10 anni), e meritano alcune riflessioni sia dal punto di vista criminologico-sociologico che psicoanalitico.

Vi sono due possibili tipologie di pirati: una prima è costituita da una “situazione limite” in cui i conducenti sono persone non in regola colla legge, “balordi”, rapinatori in fuga, extracomunitari senza permesso di soggiorno o senza patente, soggetti in preda all’alcol o a stupefacenti, casi cioè in cui il fatto commesso porterebbe alla luce altre situazioni antigiuridiche aggravanti. Una seconda  è costituita da una situazione in cui i conducenti sono “i vicini della porta accanto”, persone comuni  che apparentemente non hanno nulla da nascondere oltre al reato commesso.

La criminalità stradale è un fenomeno gli studiosi considerano un classico esempio di cosiddetta “criminalità tollerata”.

La sciagura stradale è vissuta infatti come evento “fatale”, frutto di circostanze esterne incontrollate. Dei tre fattori all’origine del sinistro (veicolo, strada, uomo), si enfatizzano i primi due e il responsabile è considerato piuttosto una vittima della sfortuna che un colpevole; le condotte di circolazione stradale vengono valutate solo in termini tecnici e di abilità e le inosservanze costituiscono errori e non violazioni morali, creando un basso livello di allarme sociale.

La mancanza di un’etica della circolazione mantiene le condotte di guida pericolose lontane dall’idea di criminalità e non viene riconosciuto  un vero stereotipo del delinquente stradale, che non viene per nulla stigmatizzato: uno storico sondaggio di opinione condotto negli anni ’70 su  150 soggetti intervistati sui trasgressori stradali ha dato il seguente risultato:

Il 90% del campione giudicava il “fenomeno degli incidenti stradali” gravissimo (50%) o grave (40%).

114 soggetti (di cui 61 agenti di P.S.) escludevano che il responsabile di un omicidio colposo stradale dovesse essere considerato un delinquente.

La giurisprudenza ha spesso punito un omicidio colposo  stradale con pena addirittura inferiore ad un reato di lesioni volontarie lievi, concedendo la sospensione condizionale anche nel caso di vere e proprie stragi della strada.

Una lesione volontaria lieve provocata con un’arma viene giudicata più grave di un omicidio colposo stradale.

Questo è lo scenario in cui ci si muove.

Il conducente -pirata della strada comune- esprime l’influsso dello scenario sopra descritto: al di là dei propri valori, del livello della propria coscienza morale, tende a giustificarsi, ad autoassolversi, “non l’ho fatto apposta, non volevo, è stata la sfortuna”, tentando di negare le  proprie evidenti responsabilità.

Egli giunge ad autoconvincersi, soprattutto col passare delle ore: “ormai è capitato, è stato terribile, ma non si può più  riportare in vita colui che è morto, (non -colui che ho ucciso-)”; allora scatta il tentativo di autoassoluzione e si rinforza l’idea di poter sfuggire alla giustizia.

Secondo un’interpretazione di tipo psicoanalitico la persona che fugge scappa dalla propria aggressività profonda e inconscia, dalle proprie valenze distruttive; la consapevolezza di avere dentro di noi delle parti aggressive e distruttive, che emerge drammaticamente in occasione del fatto criminoso, terrorizza, e allora fuga vuol dire negazione dell’azione commessa, disinvestimento emotivo del reato. La fuga cerca di bendare e coprire la coscienza e tenta di ricostruire, in modo contorto e velleitario, un equilibrio psicologico. In tal senso non stupisce che il pirata in fuga, nella maggioranza dei casi, non chiami i soccorsi neppur in forma anonima.

Nel caso di Bormio siamo davanti a due adolescenti immaturi, non ad adulti criminali o recidivi.

Un evento come questo è sempre destruente per una psiche giovanile, sia che il soggetto venga identificato e punito, sia che sfugga alla giustizia; perciò è necessario che egli venga stimolato ed aiutato ad elaborare la sua esperienza. Elaborazione intesa come riflessione maturativa sul proprio comportamento, che passi innanzitutto attraverso la presa di consapevolezza di ciò che ha commesso, l’assunzione di responsabilità, la riparazione e l’espiazione.

Tre sono le possibili evoluzioni psicologiche per i due giovani:

un senso di colpa non elaborato che influenzerà i rapporti e le relazioni della loro vita futura;

un’evoluzione verso un atteggiamento relazionale antisociale con tendenza alla continua autoassoluzione, privo di sensi di colpa o di rimorsi;

il difficile e doloroso percorso elaborativo sopra accennato, unica evoluzione positiva.

Il fatto che i due ragazzi non abbiamo sentito l’esigenza morale o giuridica di parlarne e di costituirsi, e che siano stati scoperti solo grazie alle capacità degli investigatori, non sembrerebbe un inizio incoraggiante per questa via evolutiva; l’atteggiamento severo, in un momento così doloroso, delle figure genitoriali, (che non mancheranno certamente di dare loro tutto l’affetto e l’aiuto necessario), sembra invece poter essere il presupposto positivo per una futura riabilitazione.

Al contrario un atteggiamento iperprotettivo e collusivo dei genitori, pur istintivo, sarebbe estremamente negativo per un adolescente, che si sentirebbe autorizzato ad autoassolversi, a non assumersi le proprie responsabilità, oppure che finirebbe col convivere patologicamente tutta la sua esistenza con un senso di colpa non risolto.