MARCASSOLI: "ECCO LA VALLE DEI DELITTI"

24.06.2013 16:01

A fronte di un generale aumento dei fenomeni criminali in provincia, soprattutto per quanto riguarda i furti e gli illeciti connessi al consumo di droghe, i delitti gravi restano fortunatamente pochi. Gli omicidi volontari, per esempio, sono meno di uno all’anno. E, quando si verificano, non presentano elementi particolari rispetto a quanto accade nel resto del Paese. È casomai l’ambiente nel quale maturano a presentare delle peculiarità che contribuiscono non poco a far sì che la Valtellina si discosti dai dati statistici italiani.

Proprio su questi temi incentra la propria attività di studio Claudio Marcassoli, psichiatra e criminologo forense.  Non c’è un delitto tra quelli accaduti negli ultimi anni in provincia sul quale non abbia lavorato.

Lo specialista si è occupato, per esempio, dell’uxoricidio di Cino del gennaio del 2000 e dell’infanticidio di Valfurva nel maggio di due anni dopo. «Due delitti in realtà piuttosto comuni, visto che gli omicidi a danno della moglie o di un figlio sono tutt’altro che rari - spiega Marcassoli -. Nel caso di Valfurva è particolare, questo sì, il mezzo utilizzato per commettere il crimine: l’aver messo la neonata in lavatrice. Ma come fatto in sé, per quanto grave, è piuttosto frequente nella letteratura criminale».

Si confermerebbe anche in provincia, tra l’altro, l’elevata incidenza degli atti violenti commessi in ambito familiare.

«L’aspetto peculiare della Valtellina è invece quello di un tasso di aggressività tutto sommato modesto nei confronti degli altri e molto elevato verso se stessi. Mi riferisco al numero elevatissimo dei suicidi».

Ma quali le possibili cause del fenomeno?

Sembra quasi che i valtellinesi rivolgano l’aggressività più verso se stessi che verso gli altri.

«Difficile dare una risposta certa a problemi tanto complessi. Si possono fare delle ipotesi. Premesso che dietro  circa l’ottanta per cento dei suicidi ci sono problematiche psichiche gravi, è anche vero però che il dialogo tra le persone, soprattutto in famiglia, in qualche caso potrebbe consentire di far emergere lo stato di malessere  sempre esistente che può portare al suicidio. Anche il supporto di uno psichiatra può essere utile spesso è necessario. Ma se adesso le cose stanno cambiando, fino a una ventina di anni fa quella di ricorrere a uno specialista era considerata un’idea dalla quale guardarsi. Ecco direi che il punto è proprio questo: la tendenza dei valtellinesi a tenersi dentro i problemi a non far circolare i sentimenti, quasi che parlarne sia un segno di debolezza. Troppi genitori confondono il dialogo con l’ingerenza. Domande come "Cosa fai?" o "Con chi esci?" sembra che non si possano più fare. E invece è proprio attraverso questi controlli che si possono far emergere eventuali segnali di disagio da parte dei propri figli».

Eppure le condizioni economiche sono decisamente migliorate negli ultimi decenni.

«È un aspetto, questo, che ha poca rilevanza ai fini dell’educazione e della formazione della personalità di un ragazzo. Dare dei soldi ai figli non serve. Quello che serve è trasmettere una cultura. Anzi, direi quasi che la maggiore disponibilità di denaro può essere addirittura controproducente: in certi casi si usano i soldi come mezzo per rendere stabile il rapporto con i figli, che andrebbe invece fondato sulla comunicazione dei sentimenti. Invece se qualcosa fa stare male si tende a rimuoverlo e a non approfondire l’argomento, magari sostituendo al dialogo la televisione».

Diversi suoi colleghi, tra l’altro, non perdono occasione per denunciare il pericolo di quest’abitudine.

«Come medico mi capita spesso di entrare in case nelle quali c’è quasi una televisione in ogni stanza. Oltre a quella in salotto, c’è in cucina, dove si mangia, e nelle stanze da letto. La tele è sempre accesa e in casa non si parla più. Ormai fa da baby sitter ai bambini, da badante per gli anziani ecc. Almeno quando si è a tavola, però, sarebbe bene che la televisione rimanesse spenta».

La chiusura e la mancanza di dialogo, d’accordo. Ma la provincia di Sondrio si segnala anche per la diffusa abitudine all’abuso di alcol. C’è relazione tra questa piaga e i comportamenti criminali?

«Certo: l’alcol produce degli effetti sull’organismo, come un minore senso della realtà, che possono ovviamente avere delle conseguenze. Per quanto riguarda gli abusi sessuali in ambito familiare, per esempio, in una parte significativa, dei casi emersi in provincia è risultato che l’abusante faceva largo uso di bevande alcoliche. Vale lo stesso in materia di maltrattamenti. E l’abitudine a bere troppo, purtroppo, è ancora molto diffusa, specie nei paesi».

Proprio sugli abusi sessuali si incentra il grosso studio che lei sta portando avanti ormai da anni. E anche qui la Valtellina sembra essere una realtà a sé rispetto al resto d’Italia.

«Mentre le statistiche a livello nazionale dicono che la maggior parte degli abusi a danno di minori si consumano in ambito familiare, qui siamo al 50%. Potrebbe esserci qualche relazione tra i casi denunciati e la chiusura tipica della gente valtellinese, come vuole quello che ormai è diventato un luogo comune»

Quindi gli abusi in famiglia, in un ambiente piccolo nel quale il giudizio della gente è più temuto che in una realtà grossa, potrebbero essere denunciati meno che altrove?

«È possibile. L’analisi del fenomeno è comunque molto difficile, tenuto conto del fatto che il cosiddetto “numero oscuro” è di 1 a 4. In pratica, per ogni caso denunciato ce ne sono circa il quadruplo che restano nell’ombra. Molto spesso l’abusante, spesso il padre o uno zio, trova intorno a sé un ambiente fortemente collusivo. Ad esempio, in parecchi casi “che ho studiato” di abusi commessi dal padre, la madre ha avuto un atteggiamento poco collaborativo durante le indagini».

In altre parole, cercava di coprire il marito che aveva abusato dei figli?

«A volte c’è la vergogna che costituisce un grosso freno. Altre volte invece si tratta di donne che non lavorano e dipendono totalmente dal marito; senza di lui non saprebbero più che fare e preferiscono, per pudore o per paura, accettare la situazione. D’altra parte è praticamente impossibile che se c’è una situazione di abusi in famiglia il genitore non se ne accorga. I bambini che vivono questo tipo presentano dei sintomi ben precisi, dei disturbi nel comportamento dei quali spesso si accorgono le maestre a scuola».

 

Da “La Provincia di Sondrio” del 31 Marzo 2007