LA SINDROME DI STOCCOLMA, ovvero quella strana alleanza tra vittima e carnefice

24.06.2013 17:39

Svezia. Agosto del 1973: due rapinatori tengono in ostaggio per 131 ore quattro impiegati (tre donne e un uomo) nella “camera di sicurezza” della Sveriges Kreditbank di Stoccolma.

Nonostante la loro vita fosse continuamente messa in pericolo durante il periodo di prigionia, che fu seguito con particolare attenzione dai mezzi di comunicazione, apparve evidente che le vittime temevano più la polizia che i rapitori.  Una delle vittime sviluppò addirittura un forte legame sentimentale con uno dei rapitori (legame che durò anche dopo l’episodio) al punto che, dopo il rilascio, i sequestrati chiesero clemenza per i sequestratori e durante il processo alcuni degli ostaggi testimoniarono in loro favore.

Austria. 25 agosto 2006: vagava sperduta mercoledì pomeriggio in un parco alla periferia est di Vienna. Pallida e magra, ma in buona salute. A chi l'ha fermata ha detto di chiamarsi Natascha Kampusch. Rapita nel marzo del 1998 è stata tenuta segregata in un garage per 8 anni. Ha pianto quando le hanno detto che Wolfgang Priklopil, l’uomo che l’ha tenuta per otto anni rinchiusa sotto il garage della sua abitazione vicino a Vienna, era morto suicida. «Era una parte della mia vita. In un certo senso sono in lutto» - ha detto la ragazzina, che difende il suo sequestratore e ha insistito nel dire che non le è mancato nulla in questi anni. «Non piansi mai dopo il sequestro. Non avevo la sensazione di aver perduto qualcosa. Ero forte tanto quanto lui»

La madre, Brigitta Sirny, ha dichiarato al quotidiano Die Presse che sua figlia non vuole più vederla dopo il primo incontro avvenuto a poche ore dalla sua fuga.

Due esempi eclatanti della peculiare situazione in cui la vittima di una  violenza fisica e/o psichica manifesta emozioni positive verso il suo aguzzino, emozioni che possono tramutarsi in coinvolgimento, sentimenti, legami fino all'innamoramento vero e proprio.

Se da un punto di vista giuridico il rapporto fra vittima e persecutore risulta chiaro (persecutore è colui che infligge la sofferenza e vittima è colui che la subisce), da un punto di vista psicologico tale rapporto è molto più complesso: il rapporto vittima-persecutore è visto infatti in relazione all’interazione tra i due soggetti e non solo sulla base dell’osservazione del ruolo dell’uno in funzione di quello dell’altro.

Sappiamo che tra due persone che entrano in relazione, di qualunque relazione si tratti, si stabilisce una comunicazione, un legame contenente rapporti affettivi, anche se di varia natura.

Ovviamente, nella  relazione duale persecutore-vittima  giocano un ruolo importante varie componenti: le personalità di base, i comportamenti reciproci, le circostanze, il contesto situazionale (soprattutto in riferimento all’intensità, alla gravità e alla durata del loro rapporto).

Il termine “Sindrome di Stoccolma” è stato utilizzato per la prima volta da Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI, in seguito all’ episodio avvenuto in Svezia e sopra citato.

Situazioni affettive simili a quelle del caso di Stoccolma si sono verificate in numerosi altri episodi di rapimento:  in uno studio del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Università di Padova è stata valutata la frequenza di disturbi post-traumatici da stress (DPTS) e di depressione maggiore (DM) in un campione di 24 soggetti vittime di sequestro di persona in Sardegna. Obiettivo della ricerca era anche verificare l’eventuale sviluppo della Sindrome di Stoccolma (definita come l’instaurarsi di un legame positivo con uno o più sequestratori) nel corso della loro prigionia.

Dai risultati si evince che la Sindrome di Stoccolma era presente in circa il 50% dei soggetti e non era significativamente associata al DPTS o alla DM.

Alcuni fattori ne faciliterebbero, secondo tale studio, l’insorgenza: la durata e l’intensità dell’esperienza, la dipendenza dell’ostaggio dal delinquente per la sua sopravvivenza e la “distanza psicologica” dell’ostaggio dalle autorità e dalle forze di polizia.

Sembrerebbe che i legami positivi tra rapitore e rapito non si formino subito, ma si rivelino già abbastanza solidi entro il terzo giorno di prigionia. Questo potrebbe essere giustificato dal fatto che nei primi momenti dopo il sequestro il rapito sperimenta uno stato totale di confusione, peraltro riscontrabile in alcune risposte tipiche al trauma: diniego, illusione di ottenere la liberazione, attività frenetica e poco finalizzata.

Una volta superato il trauma iniziale, la vittima torna consapevole della situazione che sta vivendo e deve trovare un modo adattivo di sopportarla; tutto ciò, col procedere del tempo trascorso insieme da vittima e rapitore ed all’isolamento dal resto del mondo, agevola l’alleanza col sequestratore.

La mancanza di gravi esperienze traumatiche, quali brutalità, percosse, violenza carnale o abuso fisico, facilita l’insorgenza della sindrome; abusi meno intensi, semplici deprivazioni od umiliazioni tendono, infatti, ad essere razionalizzati e le vittime si convincono che la dimostrazione di forza del sequestratore sia necessaria e funzionale al controllo della situazione o motivata da un loro comportamento scorretto.

Non si conosce ancora con precisione la possibile durata di questa Sindrome dopo la sua comparsa, ma pare possa sussistere anche per parecchi anni.

E’ comunque dimostrato che chi ha sviluppato la Sindrome di Stoccolma presenta a distanza di tempo: disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti improvvisi, flashback e depressione.

 

PERCHÈ  NON IN TUTTI  SI MANIFESTA?

La Sindrome di Stoccolma non si sviluppa sempre, non è una conseguenza inevitabile delle situazioni di cattività. Vi sono casi di  ostaggi che non solo hanno evitato ogni subordinazione ai carcerieri, ma che, grazie al proprio atteggiamento, ne hanno addirittura incrinato l’intransigenza. È altresì vero che questi casi sono molto meno frequenti rispetto a quelli nei quali è stato riscontrato lo sviluppo della Sindrome di Stoccolma.

Le vittime di rapimenti o di sequestri che non hanno manifestato tale sindrome  vengono descritte come dotate di forte personalità e con radicate convinzioni morali, che hanno permesso loro di mantenere la propria identità, assieme ad un solido e positivo rapporto  con la realtà esterna. Grazie a ciò, essi sono stati in grado di attivare un comportamento teso all’ “adattamento costruttivo”, che li ha condotti all’accettazione della situazione evitando che essi si trovassero a subirla totalmente fino a restarne schiavi.

Lo sviluppo della Sindrome di Stoccolma presenta una minore incidenza anche nei casi in cui un soggetto, in virtù di una formazione specifica ricevuta, può attendersi un evento del genere; pare, infatti, che la rapidità e l’inaspettatezza dell’evento giochino un ruolo fondamentale nella creazione di quella situazione di emergenza psichica che favorisce una “dinamica di annullamento” tale da indurre la Sindrome.

Comunque sia, è necessario ricordare che situazioni di questo tipo, estreme ed altamente stressanti, possono lasciare tracce indelebili, che si rivelano a distanza di tempo, anche in soggetti che sul momento hanno reagito in maniera valida.

 

COME SI SPIEGA?

Non è mai stata  dimostrata una correlazione diretta, tipo causa-effetto tra natura o gravità del trauma e reazione psicologica, (cosa del resto riconosciuta in tutte le reazioni psicologiche post traumatiche.)

La capacità o meno di mettere in atto meccanismi di difesa e di adattamento utili ed efficaci a mantenere un buon equilibrio psichico è probabilmente da ricercarsi in fattori personologici e caratteriali soggettivi.

 

Alcuni autori ritengono che questa sindrome derivi semplicemente dallo stato di dipendenza reale e concreta che si sviluppa fra il rapito ed i suoi rapitori; questi ultimi controllano gli elementi essenziali per la loro sopravvivenza: cibo, aria, acqua. Tutti elementi che, quando vengono concessi, giustificherebbero da un punto di vista comportamentale, la gratitudine e la riconoscenza che gli ostaggi manifestano nei confronti dei loro carcerieri.

Le ipotesi più accreditate sono però di orientamento psicoanalitico: l’ ”Ego”, nel tentativo di trovare un equilibrio fra le richieste istintive dell’ “Es” ed una realtà angosciosa e critica, non potrebbe far altro che mettere in atto meccanismi di difesa, come avviene in tutte le criticità.

I due meccanismi di difesa ai quali più spesso si fa riferimento sono la regressione e l’identificazione con l’aggressore.

Per quanto riguarda la regressione, la priorità dell’autoconservazione porta il soggetto ad attivare funzioni istintive di carattere infantile. In tal modo la  reazione emotiva della vittima si concretizza in un atteggiamento teso a provocare protezione e cura: l’ostaggio è simile al neonato, deve piangere affinché gli venga dato da mangiare, non può parlare  liberamente, è costretto all’immobilità in uno stato di totale dipendenza da un adulto onnipotente ed ha paura di un mondo esterno percepito come minaccioso.

L’identificazione con l’aggressore, invece, fa si che il dato di realtà relativo alla natura minacciosa ed ostile del persecutore venga distorto. La paradossale condivisione del punto di vista del persecutore (identificazione) permette al soggetto di superare il conflitto psichico creato da un lato dalla dipendenza da un aggressore minaccioso e dall’altro dall’impossibilità di “liberarsene” o sfuggirgli, proprio perché subordinato a lui. Questa situazione provoca il “vantaggio secondario” del ritenere più tollerabili, in quanto motivate, le angherie che da lui provengono.

L’autore del sequestro, a sua volta, “subisce” un’identificazione inversa.

Quanto più un ostaggio  riesce a farsi  riconoscere nella sua identità, tanto più diventa difficile per il sequestratore fargli del male. Le ricerche e gli esperimenti in psicologia, infatti, ci hanno dimostrato che la maggior parte delle persone non riesce a fare del male ad altri individui, a meno che la vittima designata non resti anonima ed emotivamente lontana. Parrebbe inoltre che i sequestratori sviluppino un certo “affetto” nei confronti dei rapiti, forse come segno di gratitudine per la collaborazione ricevuta, forse mossi da un desiderio inconscio di essere amati e rispettati.

 

CONSEGUENZE DELLA SINDROME sull’esito del di sequestro o del rapimento.

La Sindrome di Stoccolma, se si sviluppa, sembra accrescere le possibilità di sopravvivenza della vittima; partendo da questo presupposto, (ossia che lo sviluppo della sindrome vada a tutto vantaggio dell’ostaggio), favorire lo sviluppo di una situazione affettiva simile ad essa è divenuto, almeno in America, una delle possibili procedure adottate dalla polizia per garantire una risoluzione positiva dei sequestri. I negoziatori cercano in ogni modo di favorire legami emotivi positivi tra l’ostaggio e il rapitore, ad esempio chiedendo al sequestratore di permettere all’ostaggio di parlare al telefono, delegandogli il controllo della sua salute, oppure discutendo col rapitore delle responsabilità familiari degli ostaggi stessi. Viene in definitiva promossa qualunque azione tesa a sottolineare le qualità umane degli ostaggi.

Sebbene le forze di polizia più attente incoraggino questo tipo di situazione, a volte la Sindrome di Stoccolma ostacola il lavoro stesso delle forze dell’ordine; in conseguenza della “stima” e della “simpatia” per i sequestratori, l’ostaggio (avendo magari discusso con essi della loro causa e delle loro motivazioni), potrebbe non seguire gli ordini della polizia durante un assalto, avvertire i sequestratori per evitare loro di venire uccisi o catturati, e persino nascondere informazioni durante i contatti con i negoziatori. La polizia e le autorità, quindi, non sempre possono fidarsi dell’ostaggio; questo porta a riflettere sulla non opportunità, in taluni casi, di tenere segretamente informato il rapito sui piani di liberazione. Le sue informazioni sulle condizioni e sulla situazione esistente nel luogo di segregazione, inoltre, si rivelano spesso poco attendibili.

Nel caso di Stoccolma ad esempio, gli ostaggi, pur avendo avuto in qualche occasione la possibilità di scappare, non ne hanno approfittato; il rifiuto di fuggire complicò poi anche lo svolgimento il processo, poiché i giurati non riuscivano assolutamente a comprendere le motivazioni di quel gesto.

Accade di frequente poi che le vittime non collaborino con la polizia e continuino a proteggere i criminali anche finito l’assedio; alcune vittime, ad esempio, hanno preso ferie per assistere al processo, altre hanno aperto una sottoscrizione per la difesa dei loro sequestratori, altre ancora hanno rifiutato di farsi interrogare dai funzionari di polizia che indagavano sul  rapimento.

In questi casi gli ex ostaggi non sono di alcuna utilità, sia al momento della risoluzione della crisi, sia durante il successivo procedimento penale, nel corso del quale possono perfino rivelarsi testimoni contrari all’accusa.

Secondo alcuni criminologi è esperienza comune che i rapiti, una volta tornati in libertà, preferiscano “lasciare a Dio o ad altri il compito della punizione…” e che siano riluttanti a portare avanti delle accuse, dato che il procedimento penale li costringerebbe a ripensare e a rivivere quell’esperienza.

In conclusione nonostante tutte le situazioni ambivalenti descritte, la Sindrome di Stoccolma viene tendenzialmente considerata utile al fine di una soluzione positiva del sequestro, poiché un ostaggio ostile e inaffidabile o un testimone non collaborante, sono comunque un ostaggio ed un testimone vivi.

 

 

Da “IL NOTIZIARIO DELLA BANCA POPOLARE DI SONDRIO” Agosto 2007