A PROPOSITO DEL DELITTO DI ARDENNO

24.06.2013 16:55

Medico psichiatra, criminologo, consulente tecnico del Tribunale di Sondrio, psicoterapeuta: con Claudio Marcassoli, professionista conosciuto e stimato anche fuori dai confini provinciali, affrontiamo un percorso di analisi del delitto di Ardenno. Ma con una doverosa premessa: un criminologo per ipotizzare un “profiling” ha bisogno di notizie certe che possono derivare solo da una partecipazione diretta all’analisi della scena del crimine ed alle successive indagini. Inoltre l’inchiesta sulla morte di Donald Sacchetto è ancora in pieno svolgimento e per poter stabilire con certezza ciò che è scattato nella mente del suo assassino occorrerebbe  conoscere con precisione ogni dettaglio tecnico, allo stato ancora coperto da segreto istruttorio.

L’analisi che ne deriva, quindi, va necessariamente letta alla luce delle risultanze emerse in questa prima fase di indagine e attraverso i pochi dettagli che gli inquirenti hanno lasciato filtrare dalla cortina di riserbo di cui il tutto è permeato.

Che idea si è fatto dell’episodio di Ardenno?

«E’ un crimine che innegabilmente esula un po’ dalla casistica locale. Negli anni abbiamo assistito a delitti con modalità decisamente diverse, meno cruente. Ricordo che feci uno studio che abbracciava un arco di dieci anni, dal 1990 al 2000, nel quale in provincia di Sondrio si erano verificati sei omicidi, a fronte di 321 suicidi, ma tutti o quasi scaturiti in ambito familiare o provocati da litigi. Nessun omicida era arrivato a mettere in atto azioni così abnormi».

L’inchiesta dei carabinieri ha portato all’arresto di Simone Rossi, titolare della cava di Ardenno e amico della vittima. Fin dall’inizio era il principale indiziato e la figura su cui si sono concentrati i sospetti più pesanti. Un profilo da esaminare, il suo.

«D’acchito potrei dire che ci troviamo di fronte a una persona con notevoli disturbi della psiche:emergono evidenti tratti di antisocialità,  ma  in una persona che sembra lucida e perfettamente cosciente.  Emerge poi l’immagine di un delitto “organizzato”, quasi pianificato nei dettagli. L’omicida non ha mai perso il controllo come dimostrano i vari passaggi: ha ucciso, ha smembrato il cadavere, l’ha distrutto, ha fuso l’arma e ha cercato di cancellare ogni traccia del crimine. Un comportamento che denota lucidità e spietatezza».

Esiste una chiave di lettura in ambito psichiatrico che possa spiegare perché un omicida arrivi a smembrare un cadavere?

«Tendenzialmente si potrebbe dire che fare a pezzi un corpo è il gesto più estremo di un’escalation di rabbia. Una punizione, uno sfregio che scaturiscono dall’odio e dal rancore. In questo caso, tuttavia, sembra  un comportamento frutto della determinazione di far sparire ogni traccia e falsificare la scena del crimine. Non dimentichiamoci infatti che, nella casistica giudiziaria, in assenza del cadavere e dell’arma del delitto non si può accusare nessuno. Lui è andato vicinissimo a cavarsela».

Poi, però, come spesso accade, ha commesso alcune ingenuità che gli sono costate care.

«In effetti ha perso un po’ la testa. Quanto pare lucido quando uccide e organizza la scena, tanto sembra sprovveduto nella settimana successiva. Rossi ha commesso due ingenuità davvero clamorose: la vendita precipitosa delle quote aziendali e le telefonate alla fidanzata in cui praticamente confessa e mette a punto una strategia di fuga. Atteggiamenti forse  riconducibili a un atteggiamento estremo di sfida verso gli investigatori. "Provate a prendermi e a dimostrare che sono stato io": questo potrebbe essere scattato nella sua mente. E’ già successo in altri casi da parte di soggetti convinti di essere così forti da aggirare anche le maglie della giustizia. Per capire di più della sua personalità bisognerebbe aver assistito agli interrogatori e studiare la sua reazione di fronte alle contestazioni che gli sono state avanzate. La mente umana è come un puzzle dal quale poi si ricava la personalità del soggetto in esame. E non dimentichiamo un altro elemento essenziale: la scena del crimine rivela sempre la personalità del sospettato».

In questo caso?

«Non conosco il soggetto, ma sarebbe interessante capire meglio il contesto sociale in cui è cresciuto, vedere se ci troviamo di fronte a un "bullo" circondato da cortigiani che lo sostengono e lo incitano e grazie ai quali egli alimenta la sua autostima, conoscere se frequentava un locale fisso, magari sempre con le stesse persone. Sono tutti elementi fondamentali per tracciare un profilo più completo della sua personalità e quindi risalire a un’analisi veritiera dell’accaduto».

Come diceva lei, un delitto anomalo per la provincia di Sondrio. Anche il presunto autore è, di conseguenza, anomalo rispetto al territorio?

«Certamente, ma si tratta di soggetti che possono vivere ovunque,  di cui è pieno il mondo. Si tratta di malati, (non di infermi di mente), quasi sempre capaci di intendere e di volere, vittime di un pericoloso discontrollo degli impulsi. Ne ho periziati tantissimi. Si tratta di personalità malate che a un certo punto esplodono facendo emergere tutta la loro violenza. Proprio come nel caso di Ardenno».

 

Da “LA PROVINCIA SETTIMANALE di SONDRIO” DEL 06.06.2009